Francesco Polverari

di Francesco Polverari, coordinatore del master Cineas Management & Leadership Skills

C’è stato un lungo periodo nella storia economica in cui il fine principale delle aziende sembrava esclusivamente il profitto. L’azienda si è quindi organizzata con una propria struttura e un proprio fine, con propri strumenti e propria grammatica, incentrati prevalentemente su efficienza e specializzazione. Questo approccio, spesso associato al concetto di capitalismo shareholder-oriented (orientato agli azionisti), ha dominato gran parte del panorama aziendale per diversi decenni.

Tuttavia, negli ultimi anni, si è assistito a un crescente interesse per l’adozione di una prospettiva più ampia e sostenibile nell’ambito aziendale. Si è riconosciuto che le imprese non possono concentrarsi esclusivamente sul profitto a breve termine, ma devono anche considerare gli impatti sociali, ambientali ed etici delle proprie attività. Ciò ha portato all’emergere di concetti come la responsabilità sociale d’impresa (CSR), lo sviluppo sostenibile, l’equità e la diversità, l’inclusione, l’etica aziendale e la creazione di valore condiviso.

Nel modulo sul Change management del master Management & Leadership skills di Cineas – Consorzio universitario senza fini di lucro fondato dal Politecnico di Milano nel 1987 e scuola di management con una particolare expertise nelle aree della gestione dei rischi e dei sinistri – coinvolgerò i professionisti partecipanti, così come faccio di consueto ogni anno, in un laboratorio di idee e sperimentazioni pratiche sull’evoluzione del management e i nuovi strumenti a cui può attingere.

Molte aziende, infatti, hanno iniziato a considerare il management non solo come un esercizio di potere e competenza, ma anche come un’attività politica nel senso classico del termine, ovvero riguardante la polis intesa come un luogo umano di relazioni più ampio e metaforico.

Da qui la rinnovata l’importanza delle discipline umanistiche, chiamate a spiegare l’azienda a sé stessa, aprendo o estendendo verso l’esterno quel mondo che era stato inizialmente pensato e compreso come autonomo. È questa l’occasione per rinnovare il valore del termine capitale umano: una risorsa enorme che forse non ha ancora ricevuto l’attenzione adeguata. Il termine, coniato da Theodore Schultz (premio Nobel per l’economia) nel 1961, include creatività, intelligenza – che comprende anche l’intelligenza emotiva, non solo di natura strategica -, equilibrio, esperienze e vissuti personali, rispetto e responsabilità: una costellazione che non è estranea all’ambito aziendale, ma anzi vitale per esso. Elementi essenziali per l’impresa contemporanea, chiamata a rispondere a sfide su scala globale e ad adattarsi a nuove politiche sociali (inclusività, parità di genere e sostenibilità, prime tra tutte).

Se l’azienda di oggi può e deve ibridarsi con il sapere umanistico, che in fondo non le è mai stato estraneo ha anche un’ulteriore opportunità. Quella di aprire consapevolmente la propria organizzazione coinvolgendo risorse esterne in modo da sviluppare relazioni più ampie con il mondo circostante, e spesso poter unire in modo entusiasmante la parola open al termine innovation.

È risaputo che l’innovazione raramente si nutre degli ambienti gerarchici e burocratici, ma piuttosto si manifesta quando si superano i confini aziendali, coinvolgendo attivamente fonti esterne di conoscenza come partner, fornitori, clienti, università e comunità di innovazione.

Ecco dunque l’importanza del capitale umano in una rinnovata e più ampia interpretazione che si conferma risorsa vitale per l’impresa in grado di coniugare nuove sensibilità con l’apertura mentale, e la collaborazione con l’innovazione, generando un ambiente di ispirazione, scoperta e trasformazione.